Continuum verso l’apocalisse

di SONIA MARTINA

Il cavallo di Torino di Béla Tarr.

 

 

Ultimo lavoro del regista ungherese Béla Tarr, Orso d’argento al festival di Berlino del 2011, Il cavallo di Torino è un’uscita dalle scene in grande stile. La bellezza dei lunghi piano sequenza in bianco e nero che ondeggiano in un sottofondo musicale in loop, solo il soffiare del vento a scandire i giorni in un eterno ritorno sempre differente, infinito, un continuum dissonante dal sapore apocalittico.

L’evidente richiamo nietzschiano, già dal titolo e dalla citazione in apertura del filosofo ormai al limite del crollo psichico, disperandosi, del destino di quella povera bestia maltrattata dal vetturino. Ma non siamo tutte bestie abbandonate al nostro destino? Lo è il cocchiere orbo e invalido, la figlia che lo accudisce, ripetendo meccanicamente lo stesso rituale; sistemare il cavallo nella stalla, aiutare il padre a cambiarsi, prendere l’acqua dal pozzo, cuocere le patate, nutrirsi, come dice Il regista: «Vi è un’insistenza patologica nel riprodurre costantemente le stesse azioni nell’attesa che qualcosa di nuovo accada. È una tendenza tipica dell’essere umano. Quello che ho fatto nel mio film è stato riprodurre la vita.»

Ad aumentare la sensazione di alienazione è l’assenza totale di dialoghi, solo in due casi Béla Tarr ricorre alle parole, con il monologo di un avventore che racconta che il mondo fuori è ormai spacciato, “loro” lo hanno avvelenato, i nobili uomini, grandi, eccellenti che avidamente “mettono le mani”, e non ci sarà nessun Dio ad aver misericordia delle anime, né bene né male, né sconfitta né vittoria, un dramma sacro in cui l’umanità viene annientata dall’umanità stessa ma anche per volere del suo stesso creatore.

Il tentativo di rompere la routine viene offerto dall’arrivo di una banda chiassosa di zingari, si abbeverano al pozzo, esultano e scalpitano, “La terra è nostra! L’acqua è nostra!”. “Vieni con noi, andiamo in America!” l’invito alla figlia di unirsi a loro, prima che vengano scacciati dal padre armato di accetta. Uno degli zingari lascia in dono alla ragazza quella che inizialmente appare come una bibbia, ma come il regista stesso ha affermato è in realtà una “anti-bibbia”, lei, con una lettura stentata recita questi versi che nessuno aveva mai ascoltato prima d’ora, un’anti-genesi premonitrice che parla di sciagure e penitenze ,“Le mattine diventeranno notti per quelli che hanno osato violare i luoghi sacri, finché le ingiustizie non verranno lavate via. “

Se solo si calmasse il vento.

La fine è vicina, a scandire il tempo che sta per terminare è il calare dell’oscurità, il pozzo che non ha più acqua, come la luce della lampada che lentamente si affievolisce fino al nero.
Giunti al giorno che precede la fine, l’ultimo tentativo disperato dell’essere umano debole che cerca di ribellarsi all’inevitabile, padre e figlia che raccolgono i pochi averi e cercano la fuga, solo il cavallo pare abbia capito e pacificamente accettato il destino lasciandosi morire di fame e di sete.

Il simbolismo di Béla Tarr nasconde dell’altro, non è della fine di cui lui parla, intesa come termine della vita, ma della “pesantezza dell’esistenza umana”, a cui anche lui ha finito per rassegnarsi girando il capolavoro che chiude definitivamente la sua carriera.

In Italia “Il cavallo di Torino” non è mai stato accolto nei circuiti cinema, ma solo mandato in onda durante le puntate di Fuori Orario, a sancire questa sorta di fratellanza, alcuni anni più tardi, durante il festival di Locarno, il commovente discorso del regista che consegna il premio Utopia a Enrico Ghezzi, ormai provato dal degenerare della malattia.

 

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

I commenti sono chiusi