La necessità dell’incertezza

di MANUEL CUNDARI

Io capitano di Matteo Garrone.

Il tema dell’immigrazione è un argomento non nuovo a Garrone, basti pensare al lungometraggio TERRA DI MEZZO, che il regista firma nel 1996.

Una qualità da riconoscergli è senz’altro quella di saper raccontare mondi a lui non propriamente vicini. La conferma di ciò è senza dubbio da ritrovare nel suo ultimo lavoro: IO CAPITANOPresentato all’80 MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA riesce a portarsi a casa il leone d’argento per la miglior regia ed il premio Mastroianni per il miglior attore emergente a Seydou Sarr.

Garrone per la realizzazione si ispira a due vicende reali, quella di Kouassi Pli Adama Mamadoum, arrivato in Italia dopo essere stato imprigionato e torturato in un centro di detenzione libico e quella del giovane Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di immigrati su un’imbarcazione partita dalla Libia e, una volta in territorio italiano, arrestato e condannato come scafista.

Quello che fa IO CAPITANO è fondere queste due storie in un racconto di speranza, sofferenza, forza e voglia di rivalsa, senza però cadere mai nella banalità, per un tema ad oggi, purtroppo, ridondante.

La storia è quella di due cugini, Moussa e Seydou, che decidono di partire insieme verso la costa nord-africana e quindi imbarcarsi per l’Italia. I due sono spinti dalla voglia di rivalsa e non dalla paura di restare nel proprio villaggio. Come più volte ripete la mamma di Seydou, che a tratti potrebbe ricordare la classica mamma italiana, è proprio restando lì che sarebbero davvero al sicuro. 

I due giovani, però, inseguono un sogno, che solo affrontando i pericoli di quel viaggio potrebbero  riuscire a realizzare. Con coraggio ed ingenuità decidono di partire, all’insaputa delle proprie famiglie.

Dal Senegal verso le coste nordafricane, passando dal Mali e dal Niger. Gli occhi di Seydou osservano impotenti i corpi dei più deboli sparire tra la sabbia del deserto. 

I campi lunghi ci mostrano, grazie all’impeccabile direzione della fotografia di Paolo Carnera, paesaggi splendidi, teatro però di morte e sogni infranti.

È tra questi luoghi che Seydou verrà arrestato e portato in un centro di detenzione in Libia, da dove verrà acquistato come muratore. Iniziando a lavorare, il ragazzo otterrà la libertà e la possibilità di imbarcarsi verso lItalia, ma solo insieme ad altre decine di migranti e su un barcone di cui lui dovrà essere, contro la sua stessa volontà, lo scafista. 

Affronterà con coraggio la rotta, cercando di far fronte a tutte le problematiche del viaggio. Cercherà più volte di segnalare l’imbarcazione alle autorità, senza però ottenere soccorsi da chi, invece, non fa altro che giocare a scarica barile. Una velata accusa alle istituzioni, l’unica che Garrone muove nel corso del film. 

Nel finale, il primo piano di Seydou distrutto dalla stanchezza, che urla all’elicottero, è un’immagine iconica del film, oltre che lo specchio di chi, pur avendocela fatta, non sa cosa aspettarsi dal futuro. 

È un finale in sospeso che lascia allo spettatore il dubbio di cosa potrà accadere, lo stesso dubbio che attanaglia migliaia di migranti che ogni giorno affrontano quel viaggio e quei pericoli, soltanto per l’idea di un futuro migliore, ma non certamente più sicuro.

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